lunedì 8 luglio 2013

IL GRAN CONSIGLIO

         

                                                        Quando un uomo muore 
                                                        Sono i ricordi che lascia 
                                                        Ad invecchiare per lui.

                                                                    Silfi Maccheroni
                                                   

 Nella stanza illuminata a giorno sedeva, intono ad un chilometrico tavolone, la feccia più nera del Paese. Ad un capo del tavolo sedeva l’onoratissimo Gran Padrino Salvatore Sbranacchio, detto “Setaccio” per gli esigui resti che venivano ritrovati delle sue vittime: poltiglie semiliquide e, a volte, uno o due denti. Si dice che nel luglio del 1964, nella piazzola di un Mottagrill, smembrò il corpo di un camionista maremmano che lo aveva gentilmente mandato a fare in culo perché la sua Prinz verde impediva il passaggio nel parcheggio. I più esagerati riferiscono il fatto aggiungendo che Setaccio avrebbe compiuto il delitto con l’ausilio del solo indice della mano destra, mentre con la sinistra divorava un panino al salame e con una cannuccia infilata nel naso tirava di coca meglio di un aspirapolvere. 
Aveva due occhi grandi come bottoni di camicia, neri come il catrame, incorniciati da un’informe ammasso composto da borse rigonfie incise di rughe e sigillate da un bel paio di occhiaie, che parevano i segni di guerra che gli indiani si dipingono sul volto nei film western. Il tutto disposto su un bel faccione rosso e calvo, completato da un paio di baffi spelacchiati, così che sembrava proprio il culo di un babbuino. E in fondo era il suo secondo soprannome (onorificenza riservata solo ai più anziani, l’uso di più di un soprannome): veniva da tutti chiamato anche “Babbwin”, che faceva tanto boss americano. A partire dalla sua destra sedevano: 

Delfino Pippamorta, detto “O’ strunz” perché non faceva favori a nessuno e un po’ anche perché gli puzzava di merda il fiato. Era un nanetto isterico con il volto coperto da un passamontagna grigio che lasciava scoperta solo la bocca da fogna e i due occhi da cerbiatto ferito, grandi e rossi. Lo strano fenomeno riguardante la pigmentazione delle enormi iridi era stato sempre collegato da molti dottori alla curiosa voglia a forma di 666 che il Pippamorta aveva sempre avuto fin dalla nascita sulla chiappa destra. 

Fernando Lupazza, detto “Manomorta” perché quando faceva la fila in posta o quando si trovava nella calca in genere allungava timidamente le manine minuscole e tastava fino a trecento culi nel tempo record di dodici secondi e tre decimi, con uno sgravo di quattro decimi se pioveva o tirava vento. Era alto quindici centimetri ed era tutto blu, in testa portava un buffo cappellino bianco da folletto e indossava dei calzoncini di licra bianca; da sopra alle chiappe spuntava un mozzicone di coda microscopico e a volte si svegliava nel cuore della notte urlando qualcosa in proposito di un gigante di nome Gargamella. 

 Ciro Scappellone, detto “Il Minchia” solo perché aveva la testa a uovo e una coroncina di capelli alla sommità del cranio che ne rendeva equivoco l’aspetto. Era il più alto del gruppo, misurava circa due metri e sessanta centimetri, ma per non generare complessi nei compagni aveva imparato a camminare sulle ginocchia, riducendo la sua incredibile altezza di un metro. Per mascherare la postura indossava sempre impermeabili lunghi che teneva allacciati stretti, in modo che non si vedessero le ginocchia e sotto a queste applicava delle comode suole in gomma per evitare i calli; per vergogna dell’insolita capigliatura indossava sempre cappelli a tesa larga, poiché non osava tagliare gli ultimi capelli che gli rimanevano. 

Gennaro Pannocchia, detto “Sganassa” per via di certi sganassoni che rifilava sotto alla mascella di chi lo chiamava “Terrone” o “Africa” a causa delle sue origini Basso-Litagliche. Era alto, ma grosso come un armadio a tre ante e aveva i pugni delle dimensioni di un mappamondo regolamentare e per conformità infilava le dita in giganteschi tirapugni che riportavano in rilievo una miniatura di planisfero, così che non era insolito vedere qualcuno che si allontanava da lui dopo un litigio con la cartina dell’Asia impressa sulla fronte.  

Ugo Pitocco, detto “ 'Ca troia” per via del frequente uso che faceva della suddetta raffinata espressione, che utilizzava come la virgola durante i suoi discorsi. Costui era poco alto, sempre vestito di fucsia (molti invidiavano il suo interminabile guardaroba stracolmo di gessati fucsia, cappelli fucsia, guanti fucsia, bastoni fucsia con il pomolo fucsia e via dicendo) e portava sempre ficcato in bocca lo stesso sigaro cubano dipinto del medesimo colore, che però non aveva mai acceso e conservava per mantenere l’immagine. 

Pino Cazzabubbola, detto “Cheminchiadicognome” per ovvie ragioni, sebbene nel gruppo ci fossero individui con cognomi più insoliti del suo.

Francesco Brambilla, detto “Il Piemontese” perché veniva da Milano. Solo dopo che gli venne ufficialmente consegnato il soprannome si accorsero del tragico errore, ma a quel punto la regola imponeva che non si potesse tornare indietro.

Checco Starnazza, ex allevatore di lombrichi pugliese detto anche “Spago”, perché si era accorto solo dopo dieci anni di onorata carriera che quelli che allevava non erano lombrichi ma spaghetti, il che spiegava perché in dieci anni nessuno aveva mai comprato un solo verme del suo prestigioso allevamento. 

Per non dilungarci troppo passeremo direttamente all’altro capo del tavolo, dove sedeva il figlio del boss Sbranacchio: Turiddu, un ventunenne grasso come un porco e con più brufoli di un’intera classe di adolescenti di prima superiore. Mangiava polpette con le mani da un contenitore enorme, che poi era una tinozza da vendemmia stracolma di sugo e deliziose polpette, polpettine e anche un bel tocco di polpettone per completezza. Siccome aveva dita che erano come salsicce e trovavano qualche difficoltà ad afferrare gli oggetti, si aiutava anche con la lingua, che con un po’di allenamento aveva reso lunga un metro e trenta e con la quale afferrava la preda e la cacciava in bocca ancora morta, impanata e fritta. Aveva i capelli rossi per via del sugo che non smetteva mai di ingerire (anche di notte si alimentava con salsa di pomodoro per mezzo di un’efficientissima flebo) e addirittura, dopo dieci anni passati a sbranare cinquanta tinozze di pastasciutta ogni giorno, per una curiosa reazione chimica la barba aveva smesso di crescere per essere sostituita dall’organismo stesso da una bella coltura fresca di spaghetti. 
Era la vergogna della Famiglia: Quando doveva sparare a qualcuno le dita si incastravano nel grilletto e spesso e volentieri finivano litri e litri di sugo nella canna, così che al massimo poteva preparare le vittime per essere cotte al forno con la salsa, più che ucciderle. Quando era coinvolto in una rissa, inciampava sempre nei chilometri di salsiccia che spuntavano beffardamente dalle tasche e con le donne era un disastro. Era talmente indegno che non aveva neanche un soprannome (cosa assai grave all’interno della Famiglia) ed era straordinario il solo fatto che fosse stato ammesso al Gran Consiglio. 
Alla sua destra sedeva un’altra decina di brutti ceffi, ma alcuni in particolare si notavano di più: 

Caloggero Pupazza, detto “Micciacorta” perché era uno degli artificieri della Famiglia e lavorava sempre con esplosivi inspiegabilmente difettosi e ne riportava i segni: aveva il naso sostituito da un bel rubinetto d’acciaio inossidabile, che era un oggetto simpatico, ma gli dava fastidio quando doveva girare le manopole e le orecchie erano state cambiate con due pratiche palline da golf, mentre la sommità del cranio era completamente rifatta in legno di sandalo profumatissimo. 

Rosario Leccatali, detto “Pirelli” perché la potenza è nulla senza il controllo e lui aveva un tarello di ventotto centimetri, ma era tragicamente impotente. 

Infine c’era Mino Putrigna, detto “Mino” perché non sapevano come cazzo chiamarlo.

La sala era sconvolta da un gran fracasso: chi parlava, chi rubava il portafoglio al vicino, chi cantava 'Oh Susannaì ruttando, accompagnandosi con un concerto di peti in la minore. Il boss Sbranacchio, che nel frattempo si stava rollando una canna lunga trentadue centimetri, battè un pugno sul tavolo per attirare l’attenzione, ma sbagliò mira e centrò il pancione foderato con lo smoking, spappolandosi il fegato. Dopo aver bevuto un cocktail risanante a base di anfetamine, stricnina e alcool puro, incominciò a parlare con uno spiccato accento siciliano: 
“Picciotti, calma per favore. Se vi ho convocati qui oggi non è perché la situazione è grave”. 
“Mi’, meno male: mi stavo cacando sotto!” disse elegantemente il Piemontese, interrompendo il Boss. “Lasciami finire, minchione!" lo apostrofò il capo della Famiglia Sbranacchio  La situazione qua non è grave: è gravissima. Questa Famiglia fu fondata dai miei antenati  molto tempo fa ed è sempre andato tutto bene. Ma da qualche anno c’è qualcuno che, per dirla tutta, sta sfondando i marroni: la Famiglia Scatarri. Ebbene, è risultato che i rottinculo si sono presi metà del nostro territorio e hanno già fatto fuori tremilacinquecento dei nostri uomini. Qui ci vuole una presa di posizione solida! Ci vorrebbe qualcuno che saboti i piani dei rottinculo. Per questo, ho bisogno di almeno quattro uomini per una missione suicida, può anche darsi che il Boss Scatarri abbia le loro palle su un piatto d’argento già domani sera. Chi si offre?”. 
L’intero gruppo ebbe un fremito e tutti esposero le loro ragioni: il Minchia aveva il mestruo, Manomorta aveva lasciato il gas aperto tre giorni prima e non sapeva se avrebbe ritrovato la casa in tempo, Spago aveva i vermi malati, O’ strunz vomitò tredici volte sul tavolo, parlò in aramaico per trenta secondi, quindi rivomitò, fece un’imitazione di Totò recitata al contrario e svenne sul pavimento. Ca’troia ripetè centoventi volte in quindici secondi il suo tipico intercalare e si gettò dalla finestra, Micciacorta per l’agitazione accese un candelotto di dinamite con la miccia lunga venti millimetri e fu ritrovato sul soffitto un'ora dopo, che imitava l’Uomo-Ragno. 
Il Boss guardò tutti con aria torva e decretò:
“Che uomini senza spina dorsale che mi ritrovo! Deciderò io personalmente, allora. Dunque…” mentre pensava a chi sacrificare sfruttò al meglio il cannone che aveva preparato accuratamente poco prima e in tre secondi lo ridusse ad un inutile mozzicone di tredici millimetri “ Credo che sceglierò…” e poi sbuffò una nube di fumo densissima che rese impossibile la visibilità per qualche minuto, mentre i picciotti tremavano nelle loro sedie. 
“ Il Minchia." disse infine il Boss Sbranacchio "Chi meglio di te?”.
 Il Minchia ebbe un collasso e si pisciò addosso. Per lo shock, non appena si riprese, si sollevò in tutta la sua altezza e fece cinque giri della stanza urlando come un pazzo mentre suonava con i peti una grottesca marcia funebre; dopo essersi ricomposto si sedette, acquistò un cipiglio severo e ribattè, senza fare una piega: 
“Al suo servizio, Boss”. 
Il Boss Sbranacchio lo guardò soddisfatto, senza notare la lacrima che gli scendeva lungo la guancia sinistra. “Naturalmente non puoi andare da solo: potrebbero affiancarti… “ e qui gli occhi del boss si fecero non più grandi di una pulce “Il Manomorta e ‘Ca troia. Ah, e magari anche Il Piemontese e Sganassa.” 
Fu concertato tutto nei minimi dettagli e ‘Ca troia fu recuperato mentre galoppava furiosamente verso l’aeroporto più vicino. Quando il gruppo fu finalmente riunito, il Boss procedette nel chiarire il da farsi. 
 “Per spiegare nei minimi dettagli il mio piano, ho bisogno di un luminare della Scienza Criminale, il professor Achtung Von Aerdebrasken. È venuto direttamente dal suo paese, la Cermagna, per illustrare il mio diabolico piano".
Il professor Von Aerdebrasken era un omino altro un metro e cinquanta, con una chioma di capelli tentacolari e biondi che puntavano in ogni direzione, portava un paio di occhiali rossi ricavati dal telaio dei fari di una vecchia auto d’epoca, con lenti spesse e solide come un muro di mattoni. Indossava un camice nero, tipico dei Luminari della Scienza Criminale, utilizzato ancora solo nel lontano paese da cui proveniva, la Cermagna, che sfornava ogni anno un numero record di Luminari. 
La Scienza , in cui costoro eccellevano, era divisa in tre campi: la Scienza Criminale, che era argomento molto discusso e dava molto lavoro a chiunque avesse come aspirazione aiutare i delinquenti; la Scienza Poliziesca, che studiava ogni modo per aiutare le forze dell’ordine a combattere i geni del crimine; la scienza Bastarda, che studiava ogni maniera possibile per distruggere gli sforzi compiuto dalle altre due Scienze. Questi tre campi creavano tre rispettive grandi fazioni: 

La fazione di Schmidlerenterhausbachtmer, che vedeva a capo il più grande sostenitore della scienza criminale, il professor Guntabb Schmidlerenterhausbachtmer. Questa fazione sosteneva la Scienza Criminale, naturalmente e coloro che la praticavano. 

La seconda era la fazione di Moktuvia, che prendeva il nome dal generala Pandel Moktuvia, originario del paese con il più alto numero di scienziati Poliziologi, la Rozzia, ed era venerato da tutti loro.

La terza, infine, era la fazione di Bastardoni, dal fondatore, il grande Scienziato Voltumnio Bastardoni, noto sostenitore della Scienza Bastarda e originario della più grande fucina di scienziati Bastardi e di criminali: il paese denominato Litaglia, dove per altro si teneva il Gran Consiglio dei malavitosi, di cui stiamo riferendo. 

Tra queste tre fazioni naturalmente non correva buon sangue ed era in corso un’eterna guerra senza vincitori né vinti. Il professor Von Aerderbrasken tirò fuori dal taschino del camice un gessetto e una lavagna (i camici dei luminari hanno le tasche molto capienti) e cominciò a scrivere: 'Deine Pianen Diaboliken n. 1'. 
Il professore si schiarì la gola e iniziò a parlare:
“Err Boss Sbranakkio ha me tetto ke foi pikkoli skassapalle fuole provare er pianen diaboliken n.1. Molto pene! Foi sapete ke famiglia Skatarri afere acvistato molto potere in ultimo periodo, dunque foi deve contrastare famiglia Skatarri. Precisamente faremo kosì” e a questo punto si spruzzò in gola una massiccia dose di Medilingua, un farmaco Cermano finalizzato ad eliminare l’accento tipico dei cermani per almeno un’ora “Ahhhh! Ora posso parlare con libertà e senza incomprensioni linguistiche. Vi sembra che ora il mio accento litagliano sia migliore?”. 
“Molto meglio di prima, dottore.” disse Turiddu, alzando la faccia dalla tinozza di polpette ormai quasi vuota. “Grazie" replicò il professore, vagamente disgustato dal ragazzo "Dunque, dicevo… Ci sono due modi per eliminare la minaccia Scatarri: uno è stare fermi a guardare mentre vi rubano anche le mutande da sotto al culo. L’altro, più efficace e molto più pericoloso, è il Piano diabolico n.1. Si basa su una leggenda, ma per il resto non ci sono pecche”. 
“ Leggenda?” disse ‘Ca troia, che nel frattempo era stato riportato nella stanza e inchiodato alla sedia con puntine da disegno ai polsini della camicia “‘Ca troia, ma che minchia sta dicendo questo?”. 
“Parlo del noto mito dei Maccheroni. Chi sa chi sono i Maccheroni alzi la mano, forza.” 
Tutti erano timorosi, tranne uno il cui braccio scattò come una molla cospargendo il tavolo di sugo e salsa tartara. 
“ Il figlio del Boss! Perbacco!" esclamò il professore "Senza offesa Boss, ma non ha l’aria di uno che sa certe cose… Parla ragazzo.” 
“ I maccheroni sono un tipico piatto litagliano e vengono serviti con il sugo oppure con il formaggio, ma a volte non guasterebbe un pizzico di pepe nero, che da gusto" e qui Turiddu si fermò, pensieroso, poi disse "Ma il piano malvagio c’entra con i maccheroni? Babbo ti prego, voglio partire anche io!”. 
“Ma che cacchio hai capito?” disse il Boss “ Non sono i maccheroni che si mangiano, figlio degenere e indegno. Non capisci una min…”. 
“Calma” replicò il professor Von Aerdebrasken “Se il picciotto vuole partire… Perché no?”. 
“Ma non ha mai preso parte ad una missione! È un incapace!” e qui il Boss avvicinò la bocca alle enormi appendici auricolari del professore “Le confesso che sono anni che cerco di liberarmene, ma un padre non può uccidere il figlio, no? Anche se il figlio è un minchione”. 
“E se prendesse parte ad una missione suicida?” suggerì il professore, la voce ridotta ad un sussurro appena udibile “Se morisse no zarebbe ein assassinien, nain? Gah, Mi scusi. A volte il farmaco smette per qualche secondo di agire” detto questo se ne spruzzò in gola un’altra dose, ben sapendo che alla lunga il farmaco può causare disturbi intestinali, quali diarrea, stereoptosintesi intestinale (diarrea isterica con tosse) e disturbi morfodeiteropsianali o più volgarmente definiti emorroidi rampicanti e, infine, poteva causare la morte del soggetto per slegamento dell’intestino tenue. 
“Starebbe dicendo” disse il Boss con gli occhi che per lo stupore erano diventati grossi come scarafaggi “che dovrei mandarlo a morire? Ma è immorale!”. 
“Non è morale, forse, ma” e qui il professore abbassò ancora di più la voce “non ci sono molte soluzioni. E poi quando mai si è sentito il figlio di un boss del meridione litagliano chiamare il proprio padre “babbo”? Che razza di figlio è? Mi dia retta, è meglio per tutti.” 
 Il Boss assunse la tipica posa di riflessione che assumeva nelle decisioni importanti: si fece porgere un quotidiano, si inforcò un paio di occhiali da vista con la montatura in oro, si calò le braghe e si sedette sulla sua personale cessopoltrona posta in un angolo. Era una comodissima poltrona con il cesso incorporato, molto utile in situazioni come quelle. Dopo avere “pensato” a fondo sul problema (tra l’incomprensione dei picciotti che non capivano cosa stesse accadendo) tornò dal professor Von Aerdebrasken e disse, a bassa voce: 
 “Credo che in fondo potrei accettare di perdere un figlio in una missione di questo tipo. Perlomeno si coprirà di onore, o almeno lo spero.” Poi rivolgendosi al figlio: “Va bene Turiddu, se vuoi partire, così sia… Ma se accetti ora non potrai più tornare indietro.” 
Il figlio del Boss accettò e festeggiò quel momento solenne, in cui prendeva parte alla sua prima missione, innaffiando tutti i presenti con sei litri di salsa al pomodoro condita con venti chili di peperoncino denominato “El pepe del Diablo”. 
Per una curiosa reazione allergica O’strunz si coprì di bolle e cadde in coma per quindici secondi e quando rinvenne non fece altro che parlare di un signore con le corna e la coda a punta che lo picchiava sul culo con una paletta da pizzaiolo e che cercava di infilarlo in un grosso forno a legna. Quando l’atmosfera tornò ad essere carica di tensione, il professore si spruzzò un altro caricatore di Medilingua e riprese a parlare: “Dunque, i Maccheroni… forse non molti sanno dell’esistenza di questa antica stirpe. È una famiglia nata nel sud della Litaglia, nella terza isola del Sud, e a quel tempo era molto temuta e rispettata; pare che il capostipite della famiglia, tale Pompus Maccheroni, generò un solo figlio, Vignus, il quale generò Fellas, che generò Trivio e così via fino ad arrivare a Coccolutus, il quale, ormai anziano, generò a sua volta tre figli, gemelli, per la precisione: Cancreno, Pinazio e l’unica femmina che un Maccheroni abbia mai generato, Fomenta. Sono ormai più di settant’anni che non si hanno più notizie della famiglia. Non si trattava di una Famiglia mafiosa, ma di una normale famiglia come tante; il motivo per cui era rispettata e temuta, era da ricercare nella forza che i suoi componenti possedevano: ogni membro della famiglia Maccheroni era detentore di un dono particolare, quasi magico. 
Ogni membro teneva nascosto il proprio dono, ma tutti sapevano e ne avevano paura: si sa solo qualcosa riguardo a Trivio, il quale pare che fosse in grado di leggere nel pensiero. Quando il figlio di Trivio, Coccolutus, si sposò, fece qualcosa di imperdonabile: permise la nascita dei suoi tre figli gemelli. Ogni Maccheroni poteva avere un solo figlio, per evitare che accadesse ciò che purtroppo avvenne: la forza oscura che i membri della famiglia si tramandavano da generazioni si divise in tre potentissimi doni differenti, di cui non si sa tuttora l’origine e neppure si conoscevano gli effetti o le caratteristiche. Sta di fatto che quando i tre svilupparono la loro forza cercarono di uccidersi tra di loro, poiché una volta scomparso un membro della famiglia, il dono che egli aveva posseduto in vita si trasformava in pura energia che andava ad accrescere le capacità già esistenti nei membri rimasti”. 
“Quindi” disse il Minchia, confuso “se un Maccheroni moriva la forza che c’era in lui si trasferiva nei Maccheroni ancora vivi?”. 
“Esatto" disse il professore "Badate bene: non si trasferiva il dono, ma solo l’energia. Ed è per questo che i tre fratelli cercavano di eliminarsi tra di loro: colui che fosse rimasto in vita  avrebbe visto il suo dono diventare più potente. Ma la leggenda dice qualcosa in proposito, ovvero che questo effetto si sarebbe magicamente annullato per sempre quando nacquero i tre gemelli, senza che questi lo sapessero. Quando morì Coccolutus, la sua energia non si trasferì nei figli, ma semplicemente si dissolse e i fratelli, compresa l’inefficacia della folle faida, smisero di condurre la loro guerra, ormai inutile. Da allora si sono perse le tracce degli ultimi tre discendenti. Ora, per contrastare gli Scatarri, abbiamo bisogno di una persona con un dono mentale molto potente, e si da il caso che recenti fonti hanno confermato l’esistenza di un Maccheroni, l’ultimo in assoluto. È lui che dobbiamo trovare.” 
“ 'Ca troia! E perché dovremmo cercare un Maccaruni?” chiese elegantemente 'Ca Troia. 
“Toppiamo cerkare un Makkeroni per scongiurare fine ti famiglia, testa ti minkia!” il professor Von Aerdebrasken crollò sfinito sulla sua sedia e si sparò in gola una dose letale di Medilingua, che gli provocò un attacco di diarrea così forte che rischiò di morire affogato nei pantaloni. 
Il Boss si alzò e disse: 
“Ora che avete avuto un’esauriente spiegazione potete prepararvi. Tra dieci ore partirete”.
“Mi scusi Boss” disse rispettosamente il Minchia "Non mi è chiaro dove sarebbe questo Maccheroni…”.
"L’ultimo avvistamento" disse il Boss con cautela "è stato rilevato nella Piana della Calura.” 
Il Minchia non potè far altro che inghiottire saliva: sapeva per sentito dire che quel luogo era come… 
“Ma non c’entra nulla il cibo!” disse Turiddu scoreggiando fiamme per via del peperoncino e interrompendo così i pensieri del Minchia “Io non voglio partire!”.
“E invece parti, ippopotamesco idiota" sentenzio il padre, lisciandosi il pancione "Non ti puoi tirare indietro adesso, copriresti di vergogna l'onore della Famiglia. A proposito: credo che ora tu abbia bisogno di un soprannome, ma non c’è tempo per la cerimonia ufficiale, quindi lo comunicherò io seduta stante, questo basterà. Che ne dici di Ippolpetta? Un bell’incrocio tra un ippopotamo e una gigantesca polpetta inutile. Così sia" terminò il Boss, ignorando le goffe proteste del figlio, poi aggiunse "La riunione è finita. I suicid… Ehm... i volontari si presentino qui da me tra sei ore.”
Turiddu voluto ancora discutere il suo nuovo soprannome, ma fu cacciato fuori dalla stanza a pedate nel culo. Una volta che la sala si fu svuotata, il Boss si voltò verso il professore, che si era liberato dei pantaloni e sedeva immobile, coperto solo da un paio di mutande di pizzo rosso con una scritta ricamata sul pacco: Dosso pericoloso: rallentare. Guardandolo fisso con gli occhietti minuscoli, il Boss disse: 
“Forse avremmo dovuto essere più sinceri con i picciotti. E con mio figlio” era molto serio. 
“Forse è meglio liberarsi di un figlio che possiede la sola qualità di pisciare sugo" disse il professore, di rimando "In quanto ai picciotti, non penso che la verità li avrebbe rassicurati. Avremmo forse potuto essere più chiari riguardo alla vera origine dei Maccheroni, ma se avessimo rivelato la presunta identità dell’ultimo della famiglia… non sarebbero mai partiti nemmeno sotto tortura, non crede?".
“Forse” disse Setaccio “Ma non mi sento la coscienza a posto, non mi fa onore. E l’onore è importante”.
“Più della solidità della Famiglia? Si ricordi che è stato lei a voler omettere i particolari sul piano del Boss Scatarri”. 
“Vero. Ma solo per non allarmarli. Tuttavia potrebbero scamparla… Devono scamparla, se vogliamo che la famiglia sopravviva. È tutto nelle loro mani. Ce la devono fare” concluse il Boss.
“Sempre che riescano a passare lo stretto di Ravinia. Una sola nave riuscì a passarvi oltre quasi intatta, ma l’equipaggio era dimezzato e i sopravvissuti furono trasferiti a vita in un manicomio, chiusi in un ostinato mutismo. Dicono che la piccola abbia degli aculei portentosi” e nel dire questo un ghigno malizioso si allungò sulla faccia del professor Von Aerdebrasken, per poi diventare una smorfia di dolore: con un peto violento il professore tornò in immersione, accompagnato dal gelido sguardo di disgusto del boss Sbranacchio.